È una vita stupenda quella da universitaria contenta

A.814 bc int. Sembrerebbe un simpatico codicillo da inserire in una cassaforte da scassinare silenziosamente per non farsi scoprire. Chissà che gran tesoro potrà mai contenere un oggetto dalla combinazione segreta “A.814 bc int”. Un milione di euro ad esempio. Oppure lingotti d’oro come se piovesse. Il segreto della felicità. L’ingrediente segreto della Coca Cola. Lo strategemma definitivo del Mignolo col Prof per conquistare il mondo.

E invece no. Anche oggi non divento né ricca, né padrona dell’economia globale, né capo supremo dell’universo. Il demoniaco numero scritto a zampa di gallina su un simpatico foglietto consegnatomi dal portinaio dell’università è la sigla atta a denotare l’aula dove dovrò seguire il primo corso di questo nuovo semestre.

Cammino per il campus aguzzando la vista alla presenza di ogni porta, ma nessuna è la mia agognata meta. Cammino tra i tabagisti che affollano gli ingressi come bombi attorno ad una piantina di lavanda e che mi impediscono di leggere la sigla dell’aula. Camminando di qua e di là, a un certo punto chiedo imbarazzatissima ad alcuni colleghi che non ho mai visto prima se l’aula fosse almeno nel nostro ateneo. E loro, dopo aver interpretato il mio codice da Vinci da ricercare, mi dicono pieni di compassione: guarda, mi sa proprio che è un’aula della succursale.

Terribile scoperta! Sono già in ritardo per la lezione al primo giorno. Armata della velocità che mi consente il mio gigantesco bagaglio universitario, comprensivo di un computer (effettivamente utile all’attività studentesca) e altre centomila sciocchezzuole che non servono a nulla, ma che ” non si sa mai”, procedo a passo di marcia verso la mia meta.

E già da qui ogni studente saprà che questo è soltanto l’inizio della sarabanda di disagi che solo la prima settimana di università può portare. Perché si sa, se c’è un fattore lievemente piacevole di questa vita giovane e indipendente cui ogni ignaro liceale anela, c’è il fatto che per alcune facoltà universitarie la frequenza non è obbligatoria. Eh già. Fattore che non cambia minimamente la mia vita, dato che la mia tendenza al masochismo mi porta a seguire corsi che iniziano alle otto di mattina e terminano alle sette di sera. E li seguo pure tutti. Perché, modestamente, sono una fanciulla molto ligia al dovere. Ma non perdiamoci in ciance.

Quando arrivo sono già stremata: dopo tre piani di scale a rotta di collo, scopro che le auliche porte che celano il corso sono ancora serrate agli ignari viaggiatori, così che una sarabanda di giacche e giacchette multicolore creano una chiassosa massa ammucchiata davanti ad esse.

Tra i grandi sbattimenti di chi segue tutto l’anno i corsi, vi è una gigantesca, amara consapevolezza: la prima settimana di università si trascorre da accampati. Perché tutti, tutti, frequentano le lezioni introduttive dei corsi. E se non sei Usain Bolt, rapido come le folate di vento che solo i treni diretti che passano a rotta di collo sanno portare, dovrai sederti per terra. E dato che io non sono nata corridore e mai lo sarò nella vita per la sicurezza mia e degli altri, ho familiarizzato con la fonte di sostentamento di ogni mio passo: il pavimento.

Così, ancor prima di passare agli spintoni e alle gomitate, manco fossimo ad una corsa campestre, mi accodo arrendevolmente.

E mentre tiro comunque un po’ di gomitate a destra e a manca con scarso entusiasmo, in piena accettazione del mio destino già segnato, gioisco alla vista di un gradino che potrà essere adeguato supporto ai miei indispensabili materiali per la scrittura degli appunti: grazie, miracoloso gradino. Oggi sarò un’amanuense con meno problemi di cervicale. Forse.

Acchiappo al volo il primo portaombrelli disponibile che diverrà senza protesta alcuna il mio tavolino improvvisato, ed è subito tablet taaac, tastiera taaac, registratore taaac, penna taaac, insomma, milanese imbruttita mode on.

Lo sbattimento del seguire i corsi universitari, per me, non è seguire le lezioni. Assolutamente. Quello è interessante. Il vero problema sono i tuoi vicini colleghi. La fauna dell’ambiente universitario è ampia e variegata, ce n’è di tutti i tipi. E chi si lamenta, anche se la lezione è iniziata da soli due minuti. E chi batte sulla tastiera come se volesse sfondarla perché il computer non funziona. E chi continua a chiacchierare e non prende appunti. E chi ha due posti liberi accanto a sé, ma non te ne può cedere almeno uno perché altrimenti dovemettolaborsalagiaccaelombrello?. Chiariamoci: ognuno può fare quel che vuole, anche spararsi una maratona improvvisata di Breaking Bad. Ma perché quelli che masticano la cicca come mammiferi ruminanti si devono sedere proprio vicino a me?

La lezione trascorre serenamente. Il gradino, sempre più scomodo ad ogni minuto che passa, concilia l’attenzione. D’altronde, non posso certo abbioccarmi così, stipata tra una borsa che funge da schienale e un portaombrelli. La mia cultura si accultura, la materia mi piace, tante cose belle. Poi, come in ogni scuola che si rispetti, suona la campana.

Ora, il nomadismo è cifra stilistica di chiunque viva la propria esperienza universitaria in un ateneo con almeno più di una sede. Ebbene, aggiungiamo ai disagi primari di ogni studente con un pesante fardello sulla schiena l’amabile privilegio di dover zampettare di qua e di là come una papera sbilanciata, al fine di raggiungere una collocazione che, si spera, sia consona per una lezione. O che come minimo non ci si debba sedere per terra.

Poveri illusi. Volevate essere comodi comodi? Magari ci siete anche riusciti? Bene! Diamo il via alla terza piaga d’Egitto, signori.

In università non esistono le mezze stagioni. Non esistono, per proprietà transitiva, nemmeno le giuste temperature all’interno delle aule. Questo significa una sola cosa: d’inverno si muore di caldo perché il riscaldamento è sahariano; d’estate si muore di freddo perché l’aria condizionata riproduce fedelmente l’habitat naturale dei pinguini.

E così, l’unica soluzione plausibile è vestirsi come i trasformisti: si va in giro in pieno inverno coperti come eschimesi, ci si spoglia come il platano picchiatore di Harry Potter nel momento in cui ci si siede tra i banchi. Nulla di sorprendente poi, ritrovarsi in piena estate con la sciarpa per proteggersi dall’aria artica proveniente dalle bocchette sul soffitto che, alla fine della fiera, per quanta attenzione io ci metta, ritrovo sempre sopra la testa. E fu subito cervicale.

Tra i più impellenti ed utili pellegrinaggi arrivati a metà giornata, vi è la ricerca della toilette, locus amoenus dove si concentrano tutti gli studenti, tutti alla stessa ora perché sennò sarebbe troppo semplice, e dove tendenzialmente si fanno nuove conoscenze, si incontrano vecchi amici e si trova persino la zia Pina, che non si sa per quale motivo è venuta a fare la turista in università. Il vero problema è che tutte le strade portano a Roma, ma quale diamine di strada porta ai bagni? Per fortuna che dopo un po’ di tempo ci si fa il callo, il piccolissimo algoritmo di Google Maps nel tuo cervello prima o poi inizia a ricalcolare il percorso in automatico, ma ricordo bene i primi giorni dove, per trovare questo Santo Graal nella sede centrale, io e i miei amici ci siamo arresi e siamo tornati in succursale, dove ce n’è solo uno solo, ma almeno sappiamo dove.

Tutti sanno benissimo invece dove si trova la segreteria: non si spiegherebbe altrimenti l’insorgenza della vecchiaia in tutti i poveri malcapitati che almeno una volta nella vita si sono presentati presso questo oracolo di Delfi, pazienti, in attesa di un responso, con un tempo di attesa di quattro ore e mezza.

Vogliamo parlare della libreria? Perché i testi universitari non si acquistano: prima si vende un rene, poi ci si mette in coda e forse a quel punto, dopo tre ore, avrete l’immenso privilegio di tornare a casa con venti malloppi di quattrocento pagine. (E con un portafoglio di gran lunga più leggero.)

In realtà, devo essere sincera, è tutto molto ironico. Di solito la prendo sempre sul ridere, perché alla fine è tutto un’avventura e non vale la pena perdersi in troppe argomentazioni considerato il fatto che, volente o nolente, sono in università quasi tutti i giorni per tutto il giorno.

Che poi, a ragione di questo, io non abbia tempo di studiare, è tutto un altro discorso. Perché il vero dramma è che spesso, udite udite, non ho nemmeno la pausa pranzo.

Ebbene sì, questa è la cruda realtà che molto probabilmente i miei colleghi capiranno. Posso altroché accettare di ritagliarmi tattiche sessioni di studio in luoghi impensabili, da ameni giardinetti nascosti in università agli scomodi sedili del treno. Ma accettare di trangugiare il mio già ben più che triste panino in quei dieci minuti che separano la corsetta per trovare un posto in classe dall’arrivo del professore, è la vera piaga sociale da debellare. Bisognerebbe protestare, chiedere almeno il tempo per recarsi in mensa o mangiare come la schiscetta comanda. Ma la verità è che non ho il tempo nemmeno per fare quello, quindi mordo il mio panino ripieno di prosciutto, formaggio e mestizia, il mio piccolo, amabile rancio, e nel frattempo occupo un posto libero.

E finalmente, finalmente giungiamo a parlare dell’unica gioia in tutto questo mainagioia: il caffè.

(Seguono grida di giubilo e squilli di tromba)

Ebbene si. Ogni giorno la giusta dose quotidiana è l’elemento quanto più salvifico si possa immaginare. Considerato che, persino con dieci ore di sonno, sono la classica persona che è capace di lamentarsi sbadigliando, direi che il magico elisir che tutto cura non ha effetti poi così taumaturgici. Mi piacerebbe, eh. Ma l’agitazione che la caffeina provoca alle altre persone nel mio caso corrisponde soltanto all’attivazione del risparmio energetico fino alla successiva tazzina.

Oh, venerate macchinette del caffè! Voi, che mi fate vivere ogni giorno il meraviglioso, forzato risveglio con una bevanda ora bollente, ora freddina, quasi sempre senza zucchero sua sponte, perché il cucchiaino per mischiare è un vago miraggio; quante volte rimpiango il primo anno, quando potevo recarmi felicemente al bar e bere un caffè con tutta la pace e la tranquillità del mondo! Non come lo shottino rovente che devo trangugiare prima che la lezione inizi … Però per ora è efficace: sono sveglia, vi consento di parlarmi.

Il nocciolo di bellezza in tutto questo lungo discorso è che la vita universitaria è meravigliosamente ironica. Non passa giorno senza che una nuova avventura si presenti all’orizzonte. Certo, tutto dipende, come sempre, da come la vivi. E siccome sono sempre stata troppo concentrata su una perfezione di accadimenti che suonava di falso, questi continui imprevisti ora mi sembrano il condimento più saporito di ogni giornata. Quello che la sera non ti fa solo pensare che hai fatto una settimana di lezione e sei già indietro sulla tabella di marcia dello studio. Ma è il pepe che ti ricorda che c’è varietà nella vita. La curcuma che ti ricorda che c’è sempre qualcosa di nuovo ogni giorno, se lo osservi bene. Il sale che ti manca per aprirti in un sorriso, nel tuo sorriso quotidiano che serve ad essere felici.

E per chiudere questo excursus di sapori che, francamente, mi sta facendo venir fame, posso solo concludere che sì, la vita universitaria è un grande sbattimento. Però sono contenta, tanto contenta.

Felice persino di star seduta per tre ore su un gradino. E più ci penso, più mi piace credere che questi scalini su cui ogni giorno salgo mi portino un pochino più in alto di dove ero ieri. E per una volta voglio godermi la salita, gradino per gradino. Guardandomi attorno, con gli occhi ben aperti, per cogliere tutto quello che posso cogliere nel percorso: la strada dalla stazione all’università, con uno spettacolo diverso a seconda delle stagioni; le persone che conosco e ho conosciuto e conoscero’, con cui rido e scherzo; il profumo del caffè al mattino; la musica giusta che arriva al momento giusto mentre passi accanto alle vetrine di un bar.

Non voglio perdermi nulla. E per fortuna la strada è ancora lunga, ho ancora tempo per saziare la mia contentezza. Ho ancora tanti gradini da fare … 🙂

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